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Web 2.0 e comunicazione d’impresa

Vincenzo di Digital PR mi chiama in causa su Business & Blog rispetto al Web 2.0 e alla comunicazione d’impresa. Vincenzo chiede:

Il web 2.0 accelererà i processi di cambiamento delle imprese? Ne aumenterà l’eticità nei confronti dei consumatori? A che punto siamo e dove porta il profondo cambiamento in atto nel mondo dei media nell’anno dell’esplosione del digitale?

Innanzitutto dovremmo distinguere se parliamo dell’Italia o dell’estero. Nella lunga risposta che segue, mi riferisco all’Italia.

Il Web 2.0 non ha raggiunto ancora una massa critica da accelerare alcun processo. Come evidenziato recentemente – lista del Web 2.0 italiano, articolo di Business 2.0 senza Italia – arranchiamo fortemente nello sviluppo e nel finanziamento di idee imprenditoriali per la internet nostrana. Questo comporta un rallentamento nell’adozione a tutti i livelli delle tecnologie e della socialità propria del Web 2.0. Perché questo faccia da catalizzatore è necessario superare quel livello di diffusione, quel numero di utenti tale da far scattare la scintilla dell’adozione da parte dell’impresa.

Se l’impresa decide di accettare la sfida della conversazione aperta, senza filtro, con il proprio cliente, questa scelta è di per sé rivolta alla trasparenza e al rispetto. Se con questo intendiamo l’etica, l’adozione dell’approccio sociale e comunitario del Web 2.0 sarà senza dubbio un passo avanti in questa direzione.

Fuori dai nostri confini, senza necessariamente oltrepassare l’oceano, ci sono gruppi editoriali internazionali (News Corp. di Murdoch) che investono pesantamente su internet (MySpace), televisioni che aprono spazi per i contenuti multimediali degli utenti (CNN e BBC), aziende nate online (YouTube) capaci di influenzare le dinamiche degli altri media, società tecnologiche (Apple e Google) capaci di rivoluzionare il mondo dell’intrattenimento (iTunes Music Store con musica e programmi tv a pagamento) e della pubblicità (gli annunci Google).

In Italia siamo poco più che all’anno zero. Nuove società internet (start-up) non se ne vedono, se non molto timide, deboli e con pochi capitali. I grandi portali seguono la scia dell’estero, giocando qualche timida carta (Alice con la partnership con Segnalo e OKNOtizie, Libero con i video). I gruppi editoriali importanti stanno alla finestra, ad eccezione dell’Espresso-Repubblica, primo a portare in Italia esperienze mutuate dall’estero: Il PDF da stampare aggiornato al minuto, l’aggregatore di feed RSS, i video prodotti dagli utenti, i blog delle firme più importanti.

Gli altri? RAI ha un budget molto limitato per i nuovi media e rispetto agli investimenti di altri broadcaster pubblici, BBC in testa, gode di un’offerta digitale risibile, eccezion fatta per il digitale terrestre. Rizzoli-Corriere della Sera, scottato da investimenti scriteriati (Concento), ha lasciato a difendere il fortino internet il Corriere.it, capace di innovare con il Media Center e la proposta di contenuti raccolti in rete, ma del tutto inadeguato a fronteggiare la sfida del Web 2.0. Possibile che il secondo quotidiano italiano non abbia ancora aperto un solo blog per i suoi editorialisti e si affidi soltanto a forum per lo scambio delle opinioni con i lettori? All’estero (Washington Post, Liberation, New York Times, Der Spiegel) le notizie sono affiancate dai commenti dei lettori, scritti nella stessa pagina o linkati attraverso i blog di Technorati.

Qualche timido spiraglio c’è, vedi Fai Notizia di Radio Radicale, ma i grandi editori latitano. Il dibattito (PDF) sui media italiani si conduce oggi sulla riduzione dei contributi pubblici ai giornali di partito paventata dal Governo. Puntocom chiude le rotative. Il Manifesto, tra i giornali a godere di contributi pubblici, si inventa sottoscrizioni sempre più pressanti per far quadrare i conti. L’unica ventata di freschezza, per l’informazione italiana online, è stato l’avvento dei nanoeditori, seppur con i propri limiti, quali Blogo, Communicagroup, Blogosfere e Blogcenter.

Due sono i grandi nemici dello sviluppo tecnologico della rete e della sua crescita in termini di investimenti e di ricadute sull’informazione: la televisione e la politica.

La televisione, con il duopolio Rai-Mediaset, drena una fetta della torta pubblicitaria tale da impedire lo sviluppo di nessun altro gruppo editoriale italiano. Mediaset ha la maggioranza di questa fetta e appoggi politici, in ambo gli schieramenti, tali da impedire ogni limitazione di questo potere. RAI è in mano ai partiti e per definizione è un’azienda gestita in prima persona dal potere politico, chiunque sia al Governo: lottizzazione. In questo panorama editoriale, internet è destinato a rimanere marginale, negli investimenti pubblicitari e nelle risorse quindi che la possono far crescere.

Il digitale di massa, se e quando arriverà, sarà declinato in digitale terrestre (controllato da RAI e Mediaset), digitale satellitare (Sky – Murdoch – News Corp) e digitale terrestre mobile (3, Vodafone e Telecom Italia/TIM).

L’unico soggetto apparentemente interessato a sparigliare le carte è Telecom Italia, con il monopolio de facto della banda larga e, potenzialmente, dei contenuti digitali da veicolare con la rete internet. La verità è però diversa. Telecom Italia è un’azienda che prospera sulla mancata applicazione di norme tali da ridurre il suo potere monopolistico, costituito dalla proprietà della rete telefonica. Telecom Italia ha tutto l’interesse quindi ad ingraziarsi il potere politico per continuare a mungere, finché può, i suoi clienti, soprattutto ora, nel delicato passaggio dai servizi analogici (voce) al digitale (banda larga, internet, televisione, dati, suonerie, ecc). Gli azionisti di controllo di Telecom Italia (Pirelli e Benetton) si trovano in difficoltà finanziarie che potrebbero portarli a vendere Telecom Italia Media (La7, la televisione gestita in maniera tale da non disturbare più di tanto il potere) e a far entrare nuovi azionisti, provenienti dagli altri poteri: Mediaset e Murdoch.

In questo scenario, così ingessato, soltanto una normativa antitrust seria, in campo televisivo e telefonico, potrebbe spuntare le armi ai monopolisti (RAI, Mediaset, Telecom Italia) e permettere alla concorrenza attuale di rinforzarsi e svilupparsi, sfruttando il passaggio al digitale di massa. Non vedo altre soluzioni.

Gli altri gestori telefonici? Sono capaci di scalfire questo monopolio? Dai dati di bilancio e dalle quote di mercato è evidente che la risposta sia no. Tiscali ha ridotto nel tempo i mercati dove è presente per riuscire a gestire il proprio bilancio. Fastweb gode della simpatia del mercato e lavora bene ma manca ancora della massa critica a c
ompetere su un terreno più vasto. Come sostenuto da Francesco Caio, nel prossimo futuro è facile che assisteremo ad un consolidamento delle posizioni e, perché no, all’arrivo di qualche grande gruppo internazionale (Orange, Deutsche Telecom, Telefonica) sul mercato italiano con l’acquisto di una o più società italiane.

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