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La pubblicità è il virus che uccide l’editoria digitale?

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L’editoria è in crisi. L’editoria digitale è in crisi.

L’ultima piattaforma a rivedere il suo modello di business è Medium. Ev Williams annuncia che Medium taglia un terzo dei posti di lavoro e chiude la sua piattaforma di native advertising (articoli sponsorizzati), alla ricerca di un diverso modello di business. Apriti cielo. In 24 ore si scatena un putiferio, tra chi dice “te l’avevo detto”, “finalmente, è ora di cambiare”, “non hai ancora capito”.

La pubblicità è Google e Facebook

Gli editori se ne devono fare una ragione. Prima se ne rendono conto, meglio sarà per loro. Il modello di business basato sulle pagine viste è destinato a tramontare. I nuovi investimenti pubblicitari passano dalla carta stampata a Google e Facebook, lasciando spiccioli a tutti gli altri. Non è un caso se gli investimenti monitorati da Assointernet siano in calo (-2,5% da gennaio a novembre 2016). La soluzione è il native advertising? Apparentemente questo sembra essere quanto sta sostenendo i giornali online americani, dal New York Times (TBrand Studio) all’Atlantic, passando per Slate. Su quella, almeno per ora, Google e Facebook non sono in grado di competere.

Medium e il futuro

Medium è una piattaforma in cerca d’autore. Un giorno sembra voler competere con WordPress e le piattaforme per gestire contenuti. Un giorno sembra voler fare l’infrastruttura per gli editori, con servizi collegati. Un altro giorno ancora, l’ultimo, decide che la pubblicità è morta e che è inutile continuare. Meglio cambiare passo e cominciare a pensare subito a qualcosa di nuovo. Cosa? Ev Williams non lo sa e lo ammette candidamente. Gli investitori che hanno messo 132 milioni di $ nella startup forse cominciano a preoccuparsi (in realtà no, perché hanno investito i loro spiccioli, o quasi). Gli editori che sono passati a Medium in cambio di un minimo garantito per i loro contenuti, sostenuti da Medium vendendo pubblicità, ora non sanno che fine faranno.

Medium ha raccolto 7,5 milioni di nuovi articoli pubblicati nel 2016, visti da 60 milioni di utenti al mese. Un volume di contenuti e di attenzione altissimo. Possibile che non sia possibile monetizzarlo? Ev Williams non è uno da “prendi i soldi e scappa”, perché di soldi ne ha già raccolti abbastanza con la vendita di Twitter. La sua mission è creare un sistema per sostenere i contenuti di qualità in rete. Come?

Reinventare la ruota

Per quanto nuove idee possano emergere ogni giorno, come si sostengono in contenuti in rete oggi? Le strade battute sono le solite: contenuti gratis in cambio di pubblicità, di donazioni o con una forma di pagamento, abbonamento, sostegno agli autori o con paywall che sia. Non c’è una terza via.

L’opzione filantropia, il modello originale, sembra cozzare con i 132 milioni del venture capital, che non è esattamente beneficenza. Perché raccogliere questa massa finanziaria senza averne realmente bisogno, per me resta un mistero. Senza questo impegno verso i fondi di investimento, Medium potrebbe prendere strade che oggi non può più. Ha ragione chi sottolinea comunque che il peccato originale di Medium sia quello di non aver deciso cosa fare da grandi. Attrarre pubblico per decidere poi cosa vendergli, non funziona più. Di certo non funziona con i contenuti editoriali. Medium a pagamento? Ciò vorrebbe dire dover cominciare a pagare gli autori e non solo gli influencer. Sarà divertente vedere se e come Medium sopravviverà.

Morale della favola

Dalla parabola di Medium, a mio avviso si possono apprendere alcune lezioni:

  • Creare contenuti su una piattaforma terza non è un investimento intelligente sul lungo termine, qualsiasi sia il pubblico di quella piattaforma, perché se ne perde il controllo, prima o poi.

  • Guadagnare pensando di creare contenuti, nell’era del gratis, è velleitario.

  • Per una startup, raccogliere fondi quando non se ne ha realmente bisogno, è un rischio per la propria sopravvivenza.

Published in Media & Social media