Skip to content →

Non qui, non altrove

Titolo: Non qui, non altrove (There, there)

Autore: Tommy Orange

Data: Agosto 2019

Luogo di lettura: San Francisco

Pensieri: 12 personaggi nativi americani. Ogni capitolo racconta la storia dal punto di vista di uno di questi. Nel finale si incontrano. Libro sui nativi americani scritto da un nativo americano. Fiction ma suona quasi come non fiction, da quanto è reale e purtroppo veritiero nella sua tragicità.

Altri libri: un libro unico nel suo genere, per trattare la tragedia dei nativi americani, sotto forma di fiction. Almeno è l’unico che conosco e non me ne vengono in mente altri simili.

Riflessioni: questo libro mi ha commosso. Leggendolo mi è venuto da riflettere sulla tragicità dell’emarginazione dei nativi americani, espropriati della propria terra, sterminati e soggiogati da quelli che oggi sono i bianchi americani. Tristezza a tristezza, il dibattito su come migliorare la loro condizione è praticamente inesistente. Un libro utile per capire la sofferenza dei nativi americani. Molti li idealizzano come gli indiani cattivi combattuti dai cowboy. Non c’è niente di più falso da questa ricostruzione della storia.

Alcuni passaggi che mi hanno colpito a seguire

Il fatto è questo: è quando hai la possibilità di non pensare o anche solo prendere in considerazione la storia, che tu abbia imparato quella giusta oppure no, è allora che capisci di essere a bordo della nave che ti serve antipasti e ti sprimaccia i cuscini mentre altri in mare si sbracciano o annegano o si aggrappano a piccole zattere che devono tenere gonfie a turno, gente in affanno che non ha mai neanche sentito parole come antipasti o sprimacciare. Poi qualcuno a bordo del panfilo dice: «È un peccato che quella gente in mare sia così pigra, e meno intelligente e capace di noi, noi che abbiamo costruito queste barche forti, grandi ed eleganti, noi che solchiamo i sette mari come dei re». E qualcun altro a bordo obietta: «Ma è stato tuo padre a darti questo yacht, e sono stati i suoi servitori a portare gli antipasti». Al che viene scaraventato fuori bordo da un gruppo di gorilla pagati dal padre/padrone dello yacht al preciso scopo di rimuovere qualsiasi sobillatore e impedirgli di agitare inutilmente le acque, o anche solo nominare il padre o lo yacht stesso. Nel frattempo, l’uomo in mare implora per la propria vita, ma la gente sulle zattere gonfiabili non riesce a raggiungerlo in tempo, o nemmeno ci prova, e la velocità e il peso dello yacht provocano un gorgo. E mentre l’agitatore viene risucchiato dalle acque, intese private vengono strette sottovoce, vengono prese precauzioni, e tutti silenziosamente accettano di continuare ad accettare in silenzio la legge implicita e vigente e non pensare a quanto è appena accaduto. E presto il padre, che ha introdotto tutto questo, si trasforma in pura leggenda, in storie raccontate ai bambini sotto le stelle, e a un tratto i padri sono diversi, antenati nobili e saggi. E il panfilo continua a navigare senza ostacoli.

Siamo indiani e nativi americani, indiani americani e nativi indiani americani, indiani nordamericani, nativi, ndn e ind’in, indiani registrati e non registrati, indiani delle Prime Nazioni e indiani così indiani che non facciamo che pensarci oppure non ci viene mai in mente. Siamo indiani urbani e indiani indigeni, indiani delle riserve e indiani del Messico e dell’America Centrale e Meridionale. Siamo indiani nativi dell’Alaska e delle Hawaii, indiani espatriati in Europa, indiani di otto diverse tribù con una percentuale di sangue puro di un quarto e quindi non riconosciuti come veri indiani dal governo federale. Siamo membri iscritti e membri cancellati delle tribù, membri ineleggibili e membri dei consigli tribali. Siamo di razza pura, mezzosangue, quarteroni, ottavi, sedicesimi, trentaduesimi. Calcoli impossibili. Resti insignificanti. Sangue

«Un bel giorno il presidente era a caccia di orsi, ma a un certo punto si ritrovò davanti un vecchio orso affamato e spelacchiato e si rifiutò di sparargli. Poco dopo sul giornale uscì una striscia a fumetti sull’episodio che presentava Roosevelt come un uomo compassionevole, un vero amante della natura e compagnia bella. Poi qualcuno produsse l’orsacchiotto di pezza e lo chiamò Teddy’s Bear. E Teddy’s Bear diventò ‘teddy bear’. Quello che nessuno disse è che Roosevelt a quell’orso aveva tagliato la gola. È questo genere di compassione che vogliono nasconderti.

«Roosevelt ha detto: ‘Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano indiani morti, ma credo che in nove casi su dieci sia proprio così, e nel decimo caso non indagherei troppo a fondo’

«Quello di cui sono venuto a parlare è che fin dall’inizio il nostro approccio è stato questo: i nostri ragazzi si uccidono gettandosi dalle finestre dei palazzi in fiamme, e noi pensiamo che il problema sia il fatto che si buttano. È quello che abbiamo cercato di fare: abbiamo tentato di farli smettere. Di convincerli che bruciare vivi è meglio che andarsene quando le cose diventano troppo bollenti per poterle sopportare. Abbiamo sigillato finestre e creato reti migliori per prenderli al volo, abbiamo trovato argomenti migliori per convincerli a non gettarsi.

Un proiettile è così veloce che è caldo e così caldo che è crudele e così dritto che attraversa un corpo da parte a parte, buca, lacera, brucia, esce e prosegue famelico, oppure resta dentro, si raffredda, si deposita, avvelena. Quando un proiettile ti squarcia, il sangue si riversa fuori come da una bocca troppo piena. Un proiettile vagante, come un cane randagio, può morsicare chiunque, in qualsiasi punto, perché così come i denti del cane sono fatti per mordere, per masticare, per sbranare carne, un proiettile è fatto per divorare tutto ciò che può.

Published in Esperienze