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#ijf13 /11 Critica ragionata (stroncatura) a Vertigine Digitale di Andrew Keen

Alle 12 andrò a conoscere Andrew Keen e a criticare ferocemente il suo ultimo libro Vertigine digitale. Sotto ho copiato brani del libro, grazie al mio Kindle, seguiti da un commento critico. Come potrai vedere i punti deboli del libro sono molti.

Fibit: un social gadget che espone al mondo intero le esperienze sessuali dei suoi utenti.

FitBit non è un social gadget, è un contapassi evoluto che permette di avere una idea puntuale del proprio livello di attività fisica. La condivisione dei dati è facoltativa e secondaria. Il riferimento nel libro è dovuto a un baco che ha reso accessibili i dati registrati dal dispositivo, ma è stato prontamente risolto. Così come banalizzato nel libro sembra che sia stato tutto fatto in maniera volontaria. Malafede evidente.

È possibile che qualcuno di voi stia leggendo questo stesso libro in modo condiviso, ovvero anziché starvene da soli comodamente seduti, vogliate condividere quest’esperienza fino a oggi intima con migliaia di amici fidati su Facebook o Twitter in tempo reale, tramite il vostro e-reader e i servizi sociali come i profili Kindle di Amazon.

Si confonde il fine con il mezzo. Il social reading è una funzione che permette da Kindle, di condividere dei brani mentre si legge un ebook. Se ne può fare a meno. Non è che tutti sanno tutto in automatico. Esperienza intima leggere un libro? Di libri non si parla anche in pubblico? Non si leggono anche in pubblico? Sciocchezze!

un certo senso, la lettura sociale rappresenta davvero la fine del mondo: la fine del lettore isolato, del pensiero solitario, della riflessione letteraria squisitamente individuale, di quei lunghi pomeriggi trascorsi interamente da soli in compagnia di un libro.

Fine del mondo? Fine del lettore isolato? Ma stiamo scherzando?

[Path] un ottimo esempio dell’impossibilità di avere una privacy totale su internet. Co-fondato nel 2010 dall’ex dirigente di Facebook Dave Morin come un social network completamente privato, nel gennaio 2011 è passato a un modello più «aperto» per consentire agli utenti di condividere pubblicamente informazioni.

Impossibilità? Path consente, se lo si vuole, di pubblicare qualcosa solo per i 150 contatti di Path o in qualche caso di condividere lo stesso contenuto su altri social network. Fine della privacy totale? Ridicolo!

Così anziché arrivare al villaggio globale immaginato dal guru della comunicazione del XX secolo, Marshall McLuhan, il mondo finirà per ridursi a una versione del villaggio pre-moderno – un dormitorio digitale universale in cui tutti saranno a conoscenza di ogni nostra azione, per quanto minima, nascosta o, temo, perfino immaginaria. Questo dormitorio universale esiste già. Sull’internet odierna, l’anonimato, nel bene o nel male, è bell’e defunto.

Solo le persone a decidere cosa fare della propria privacy. Dire che tutti sanno tutto di tutti è assolutamente falso. Non c’è prova a favore di questa tesi. Il fatto che alcuni decidano su base volontaria di essere pubblici non è la prova che tutti lo facciano o lo faranno o saranno costretti a farlo.

La tragica verità è che quando ci spogliamo, quando cerchiamo di essere noi stessi sotto lo sguardo del pubblico nelle reti digitali odierne, non sempre constatiamo la rottura di vecchi tabù. Sono scarse le prove a sostegno della tesi per cui network come Facebook, Skype e Twitter possano renderci più indulgenti o tolleranti. Anzi, in realtà questi strumenti virali per l’esposizione di massa non soltanto sembrano rendere la società più pruriginosa e voyeuristica, ma alimentano altresì la cultura dell’intolleranza, della malignità e della vendetta.

Dove sta la prova? Nel libro non c’è

Ne consegue che – grazie a network online trasparenti come SocialEyes, Hotlist, SocialCam, Waze, TripIt, Plancast, Into.now più Facebook con Open Graph e Timeline – tutti potranno venire a conoscenza di ogni cosa che facciamo, guardiamo, leggiamo, acquistiamo, mangiamo e, fatto più inquietante, pensiamo. Ciò comporta che, nel giro di dieci anni, avremo eliminato la solitudine e gli unici luoghi in cui potremo trovare un po’ di privacy saranno i musei

Nei musei non c’è internet e wifi? La solitudine c’è e dipende dal singolo utente, non da Facebook e compagnia.

i nostri tweet vanno facendosi più tristi: un’indagine condotta dai ricercatori della Vermont University su 63 milioni di utenti Twitter tra il 2009 e il 2011 proverebbe che la «felicità sta andando a scatafascio».

Una singola ricerca e si traggono conclusioni assolute?

Sherry Turkle, responsabile della Initiative on Technology and the Self del MIT, su 300 utenti dei social media, da cui si ricava che l’attività perpetua in rete sta minando alla base il rapporto tra genitori e figli

Tutto il ragionamento basato su una ricerca con 300 utenti!

«Il lato oscuro dell’effetto di rete è che i nodi ricchi diventano sempre più ricchi»47. Questo lato oscuro viene aggravato dai network centrati sulla reputazione, come Klout, Kred e Peer Index, i quali sembrano creare quel che un osservatore definisce il «sistema di caste dei social media», laddove i super-nodi ricevono un trattamento preferenziale rispetto a quanti hanno punteggi mediocri in termini di reputazione.

Bella scoperta! Non è così anche nella vita di tutti i giorni?

Sono loro, i proprietari dei network privati, la nuova aristocrazia globale dell’era dei social media, la classe dirigente che manovra i dati personali del XXI secolo52, ed è in questo spazio compreso tra loro, in quanto proprietari, e noi, in quanto produttori di contenuti personali, che giace la più grande disuguaglianza della nostra economia della conoscenza.

come potrebbe essere diversamente?

oggi tutti noi condividiamo i dati più intimi, a livello spirituale, economico e medico, con la miriade di servizi, prodotti e piattaforme di social media «gratuiti». E considerando che il modello imprenditoriale predominante, e forse unico, dell’intera economia dei social media rimane quello pubblicitario, è inevitabile che tutte queste informazioni personali condivise finiranno, in qualche modo tipicamente kafkiano, per cadere nelle mani dei nostri «amici» pubblicitari di Facebook e Twitter.

tutti noi? Ma quando? Ma dove? Non è assolutamente vero!

Ignore Everybody è il manuale di successo sull’anti-conformismo curato da Hugh MacLeod, giornalista del Wall Street Journal

MacLeod non è un giornalista del WSJ!

I social media sono così pervasivi, rappresentano il tessuto connettivo della società a tal punto che siamo diventati tutti come Scottie Ferguson, vittime di una storia raccapricciante che non possiamo né comprendere né controllare.

Non siamo assolutamente vittime, è questo il punto!

un futuro che la maggior parte di noi non vuole – un love-in digitale di dominio pubblico come default, una lotta per la sopravvivenza in stile darwiniano tra individui ipervisibili in rete, un «villaggio globale» dove segretezza e oblio vanno scomparendo, una «cultura partecipativa» che riflette una trasparenza indesiderata su tutta la nostra vita, un mondo fatto di sorveglianza continua tramite un raccapricciante SnoopOn.me e di incessanti verifiche su dove mi trovo grazie a foursquare, di computer che ci riconoscono e di scansioni facciali via Facebook che non ci lasciano mai in pace.

Se su Foursquare non ci sei o lo usi con un livello di privacy solo per gli amici fidati, dove sta la sorveglianza? Essere lasciati in pace è possibile, ma è una scelta dell’utente e non una imposizione dei network.

Oggi però, quando il sogno della fratellanza universale viene resuscitato da utopisti come Philip Rosedale, di cosa si tratta esattamente a livello collettivo? Non potrebbe forse internet rivelarsi di fatto la versione grottesca di un gulag? E il piano quinquennale di Mark Zuckerberg di trasformare internet in un dormitorio ben illuminato, non potrebbe incarcerare tutti noi in un’assurda prigione globale dove siamo costretti a vivere sempre in pubblico?

La risposta è no, perché la scelta è sempre personale

chi dovremmo temere maggiormente in un mondo digitale sempre più ingolfato di dati personalizzati56. Per O’Reilly, sono le potenti corporation, mentre per @quixotic è il governo. Entrambi però non hanno tenuto conto di un terzo spettro (e il terzo binario in una democrazia come quella statunitense) che, sotto certi aspetti, è più inquietante del governo o delle corporation. O’Reilly e Hoffman hanno dimenticato i miliardi di Piccoli Fratelli che, entro il 2020, avranno per le mani 50 miliardi di dispositivi intelligenti in rete. Entrambi non hanno capito che ciò di cui potremmo avere più paura nel XXI secolo siamo noi stessi.

Quindi perché prendersela con Facebook o Twitter o Google?

Il problema è che nessuno ci costringe ad aggiornare le nostre foto su Instagram, a rivelare dove ci troviamo via MeMap o a informare il mondo su quello che abbiamo appena mangiato a pranzo

Finalmente si dice! Se nessuno ci costringe, dove sta il punto?

l’unico modo per tutelare davvero la nostra privacy è innanzitutto evitare di pubblicare online qualsiasi cosa ci riguardi personalmente.

Non sarei così categorico, ma certo è che l’utente decide sulla sua privacy, non Facebook o Google

Insieme però a interventi legislativi e politici, c’è bisogno di un maggior livello di alfabetizzazione tra i consumatori sulla vera natura dell’imprenditoria del Web 3.0. Quello che la gente deve capire è che i servizi «gratuiti» su internet non sono mai veramente tali.

Questo è il vero punto, è l’utente da sensibilizzare perché è lui a decidere del suo futuro, non l’imprenditoria social

riconoscere che Facebook, Twitter, Google, Zynga, Groupon, Apple, Skype e le altre imprese che tirano l’odierna rivoluzione dei dati personali, sono corporation interessate al profitto economico e con un giro multi-miliardario, né peggiori né migliori delle banche commerciali o dell’industria farmaceutica.

Acqua calda. L’utente medio non lo sa? La questione è la consapevolezza

Continuando a contemplare, rapito, la Donna in azzurro, mi resi conto che è davvero questa l’immagine che oggi rischiamo di perdere per sempre. Nel grande esibizionismo del mondo ipervisibile del Web 3.0, quando siamo continuamente nudi davanti a tutti, intenti ad autoesporci per sempre di fronte alla telecamera – è in quel momento che perdiamo la capacità di rimanere noi stessi. Stiamo dimenticando la nostra natura più profonda.

Vero, ma torniamo al punto che l’utente sceglie liberamente di esporsi

come ci rammenta John Stuart Mill, la nostra unicità come specie sta nella capacità umana di differenziarsi dalla folla, di tenersi fuori dalla società, di essere lasciati in pace, di poter riflettere e agire per conto proprio. Il futuro, dunque, dovrebbe essere tutt’altro che social. È questo che dovremmo tenere a mente come esseri umani all’alba del XXI secolo quando, nel bene e nel male, il mondo del Web 3.0 e l’enorme mole di dati personali, l’internet delle persone va diventando un po’ la nostra dimora abituale. Ed è esattamente la «conoscenza essenziale» che vorrei ciascuno di noi potesse ricavare dall’immagine offerta in queste pagine dedicate alle vertigini digitali che caratterizzano un’epoca di grande esibizionismo come la nostra.

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