UN tempo chiedere l’età a una signora era considerato maleducazione.
Oggi la stessa cosa succede quando la chiedete a un over sessantacinque. Dà fastidio.
Oppure se ci dicono: «Come porti bene la tua età». Perché dietro quello che a prima vista sembra un complimento, pare nascondersi una forma di giudizio.
Che male c’è a dimostrare la propria età, o meglio se si dimostra un’età inferiore a quella di nascita?
C’è chi non si scompone, chi gioisce perché si considera fortunato, così come molti non apprezzano la domanda.
Quando non credono ai miei anni, e vogliono vedere la carta d’identità, me la cavo con una battuta. Mi tolgo vent’anni e rispondo: «In realtà ho sessantatré anni, ma purtroppo li porto malissimo, perché ho avuto una vita molto difficile e faticosa». Un modo per scherzarci sopra.
Caterina Serra, su un articolo dell’Espresso, afferma che parlare sempre di età serve a esorcizzare la paura di non essere più desiderati: «È facile sentire parlare di età. ‘Ho una certa età.’ ‘Alla mia età.’ ‘A questa età.’ ‘Non dimostra la sua età.’ ‘Non ha età.’ ‘Con l’età.’ Una ossessione».
Perché ce l’abbiamo tanto con l’età? Perché ci induce alla tristezza? Ci rammenta che dovremo morire?
O soltanto perché ci costringe a ragionare sulle occasioni perdute, sul tempo che non tornerà più, sulle scelte che non abbiamo fatto. Ed ora è tardi. Troppo tardi.
Mai come in questi casi vale il motto latino carpe diem, cogli l’attimo, non farti sfuggire quello che ora c’è.
Considerazioni tratte da L’età della gioia di Gian Marco Bragadin, che faccio mie.